Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

mercoledì 22 settembre 2010

Diventare persone, al di là del mito femminista

Martha C. Nussbaum, studiosa di filosofia e consulente per la ricerca al World Institute for Development Economic Research (Wider), un istituto dell’Università delle Nazioni Unite, ha scritto un libro molto importante (2000, Diventare persone, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2001) di cui vorrei sottolineare alcuni aspetti.
In primo luogo va ricordata l’utilizzazione del cosiddetto “approccio delle capacità” nella valutazione della qualità della vita delle persone. L’Autrice mutua questo approccio dall’opera di Amartya Sen (cfr. A. Sen, 2009, L’idea di giustizia, trad. it. Mondadori, Milano, 2010), per svilupparlo ulteriormente. Uno dei temi più significativi trattati secondo questo approccio è la collocazione sociale delle donne, sia nell’Occidente, sia nei paesi in via di sviluppo. Tale ricerca costituisce, dal mio punto di vista, sia un indiscutibile merito, sia un limite della riflessione della Nussbaum. Un merito perché le sue riflessioni e i fatti accuratamente da lei documentati evidenziano una piaga semplicemente scandalosa e inaccettabile, oltre che radicata ed estesa, della nostra e di altre società: qualsiasi contributo volto alla comprensione e al superamento di tale piaga, soprattutto se qualificato come quello dell’Autrice merita il dovuto riconoscimento. Tale merito è però anche il limite della riflessione dell’Autrice perché l’idea di voler presentare “una sequenza lineare di argomentazione femminista” (p. 8) di fatto impedisce sia una comprensione davvero profonda dei problemi, sia la ricerca di soluzioni davvero radicali.
Cercherò di sviluppare le mie considerazioni con gradualità perché la serietà dell’approccio dell’Autrice renderebbe quanto meno inopportuni dei commenti puramente polemici.
Riporto la prima pagina dell’introduzione al volume, perché essa risulta, a mio avviso, spietatamente veritiera e totalmente condivisibile da qualsiasi persona dotata di raziocinio e di un minimo di sensibilità umana.
“In molte parti del mondo alle donne manca il sostegno per funzioni fondamentali della vita umana. Sono infatti meno nutrite degli uomini, meno sane, più vulnerabili alla violenza fisica e all’abuso sessuale. E’ più difficile che siano secolarizzate, ed è ancora più raro che abbiano una formazione professionale o tecnica. Se decidono di entrare nel mondo del lavoro incontrano gravi ostacoli, tra cui l’intimidazione da parte della famiglia o del consorte, la discriminazione sessuale nel reclutamento, le molestie sessuali sul posto di lavoro, spesso senza possibilità di ricorrere efficacemente alla legge. Il più delle volte ostacoli simili impediscono la loro effettiva partecipazione alla vita politica. In molti stati le donne non godono di piena uguaglianza di fronte alla legge: non hanno gli stessi diritti di proprietà degli uomini, gli stessi diritti di stipulare contratti, gli stessi diritti di associazione, di mobilità e di libertà religiosa. Esse sono sopraffatte, spesso dalla ‘doppia giornata lavorativa’ che somma la fatica del lavoro esterno con la piena responsabilità del lavoro domestico e della cura dei bambini, così che non trovano momenti ricreativi ed espressivi destinati a coltivare le loro facoltà immaginative e cognitive: tutti questi fattori incidono sul loro benessere emotivo. Le donne hanno meno opportunità degli uomini di vivere senza paura e di godere affetti corrisposti, specialmente quando, come spesso accade, vengono date in matrimonio durante l’infanzia, senza possibilità di scelta e senza via di scampo in caso di cattivo matrimonio. In tutti questi modi, ineguali condizioni sociali e politiche danno alle donne ineguali capacità umane. Si potrebbe riassumere tutto ciò dicendo che troppo spesso le donne non sono trattate come fini a pieno diritto, come persone con una propria dignità, degne di essere rispettate dalle leggi e dalle istituzioni; esse sono invece trattate come meri strumenti dei fini altrui, ossia come riproduttrici, badanti, oggetti sessuali, agenti della prosperità familiare generale” (pp. 15.16).
Senza voler criticare questo testo che trovo pienamente condivisibile per i contenuti e per l’indignazione che implicitamente esprime, vorrei proporre una sorta di ripetizione del quadro in questione, facendo però riferimento ai bambini, anziché alle donne. Il testo che segue è quindi mio, anche se molte parole fanno eco a quelle dell’Autrice.
In tutte le parti del mondo i bambini non fanno le esperienze di contatto emotivo necessarie alla loro maturazione psicologica e in alcune parti del mondo non ricevono nemmeno ciò che serve per il loro completo sviluppo fisico. La loro dipendenza e fragilità in alcune circostanze li porta a subire violenze fisiche (lavoro minorile, matrimoni precoci, abusi sessuali).
Normalmente subiscono ricatti psicologici e intimidazioni dalle madri, dai padri, dai maestri e dalle autorità religiose e non hanno alcuna possibilità di reagire, soprattutto perché in molti casi i genitori appoggiano incondizionatamente le istituzioni scolastiche e religiose. Nelle situazioni più sfavorevoli ricevono pressioni e intimidazioni dai genitori che li spingono ad entrare precocemente nel mondo del lavoro, ovvero in un altro ambiente in cui subiscono sia forme gravi di sfruttamento, sia intimidazioni e costrizioni a cui non possono opporsi. In questi casi non possono ricevere nemmeno un’istruzione di base.
Subiscono qualsiasi aspetto dell’organizzazione sociale perché solo gli adulti possono intervenire attivamente nei processi decisionali sociali.
Spesso, anche nelle società più ricche e nelle famiglie più agiate non hanno l’opportunità di vivere senza paura e di ricevere sostegno affettivo. Tutte queste limitazioni li costringono a irrigidirsi, a dissociarsi a produrre lacerazioni interne che li rendono meno sensibili, soggetti a disturbi relazionali e psicosomatici e quindi carenti sul piano del loro sviluppo psicologico. In tali condizioni sono destinati a diventare persone (uomini o donne) caratterialmente rigide, sessualmente inibite o disturbate, incapaci di creare rapporti di coppia paritari e di accudire adeguatamente i figli sul piano affettivo.
Si può sicuramente dire che in moltissimi casi, i bambini non sono trattati come fini a pieno diritto, come persone con una propria dignità, degne di essere rispettate. Sono invece trattati come strumenti di fini altrui, ossia come vittime di abusi psicologici (quando non anche fisici o sessuali). Gli abusi psicologici più diffusi consistono nel dover riempire l’esistenza a madri e padri che sentono la loro vita vuota, nel dover subire forme lievi o gravi di abbandono da parte di adulti affettivamente poco disponibili, nel dover subire forme lievi o gravi di repressione da parte di genitori ed educatori terrorizzati dall'emotività profonda che essi tendono a manifestare.
Questo quadro può non risultare evidente per chiunque, dato che nella nostra società (ma anche in altre culture) la famiglia è mitizzata come “spazio dedicato all’affettività ed alla cura dei bambini”. Eppure è abbastanza evidente se ci si libera dalla mitologia della famiglia. Gli adulti che dovrebbero in teoria accudire “adeguatamente” i bambini, sono gli stessi che manifestano fanatismi religiosi e politici, che manifestano inibizioni sessuali o sessualità promiscua, che appoggiano guerre e patriottismi, che votano per politici a cui nessuno affiderebbe nemmeno la manutenzione di una bicicletta, che esprimono idee razziste, bigotte e che non riescono a staccarsi dalla TV. Uomini rozzi e donne fissate con l’igiene, uomini competitivi e ansiosi e donne vittimiste e rancorose, uomini e donne facilmente inclini alla depressione, a disturbi psicosomatici. Persone (uomini e donne) prive di senso critico che professano quasi sempre la religione che hanno assorbito nell’infanzia o che predomina nel loro paese.
Il dramma dei bambini è universale ed è comprensibile se ci si colloca su un piano umano e non su un "piano infantile". E' gravissimo anche perché i bambini non hanno modo di reagire alle prevaricazioni; tuttavia, anche se i bambini fossero abbastanza consapevoli, autonomi e forti per reagire, si potrebbero liberare dalle loro catene solo liberando anche le madri ed i padri dalle loro stesse catene. In pratica, troverebbero una via d'uscita affermando con tutti gli adulti disponibili il principio di una società migliore e non affermando un ipotetico ideale "bambinista".
Fino a qui ho implicitamente inquadrato il problema posto dalla Nussbaum come un problema di liberazione sociale generale e non come un problema "delle donne". Lo stesso ho fatto, esplicitamente, sintetizzando un altro gravissimo problema come quello dei bambini. Credo a questo punto, per completezza, di dover considerare anche il problema delle persone di sesso maschile che ritengo grave, anche se apparentemente meno significativo di quello che riguarda le donne o i bambini.
Nessuno studio ha dimostrato che i bambini maschi ricevano ovunque cure materne adeguate e che le bambine ricevano un peggiore trattamento anche se in certi paesi poco sviluppati ai bambini si concedono occasioni di gioco negate alle bambine (precocemente impiegate nel lavoro domestico). Ciò fa pensare che lo sviluppo psicologico dei maschi e delle femmine sia comunque distorto e incompleto. Ciò soprattutto costringe anche a pensare che gli stessi comportamenti "maschilisti" siano la manifestazione di un'incompiutezza e non l’espressione di una "libera scelta di sopraffazione": qualsiasi lettura moralistica di molti atteggiamenti maschili costituisce, infatti, una rinuncia ad una loro comprensione razionale.
D’altra parte, i maschi in tutte le epoche e in tutte le culture hanno pagato caro il prezzo della loro “superiorità”, sul piano interpersonale e sullo stesso piano fisico. La perversa logica della competizione maschile ha reso ovunque gli uomini iper-responsabili verso la famiglia oppure soggetti a tensioni interne finalizzate alla loro “affermazione” nella società. Non solo, ma in tutti gli scenari bellici (se si escludono quelli recenti in cui le armi nucleari o chimiche hanno colpito tutti) le persone di sesso maschile hanno pagato con la morte o le mutilazioni la loro “superiorità”.
Il concetto di “società maschilista” è un concetto radicalmente equivoco perché collega l’idea (indiscutibile) di una “miseria femminile” ad un’idea del tutto fantasiosa di una vantaggiosa “prevaricazione maschile”. Il piano umano del rapporto fra i sessi non include “giochi a somma zero” come il piano dei rapporti economici, ma è un piano in cui o tutti vincono o tutti perdono. Mentre in un’azienda, più alti sono i profitti e più bassi sono i salari (e più alti sono i salari, più bassi sono i profitti), in una relazione di coppia non vale la stessa logica: nel caso di una violenza sessuale non è vero che la donna perde un piacere e che l’uomo ottiene un piacere maggiore, ma è vero che entrambi vengono privati della loro compiuta espressione sessuale e vengono avviliti nella loro dignità. E’ OVVIO che in uno stupro c’è una violenza fisica attuata dal più forte, ma è decisamente poco plausibile l'idea secondo cui tale violenza possa produrre un reale vantaggio per il violentatore. Se il violentatore non fosse già mentalmente dissociato e quindi represso nella sua capacità di esprimersi sessualmente, non proverebbe nemmeno eccitazione di fronte alle proteste o al silenzio carico di odio di una donna non partecipe. Con questo, non voglio dire che gli stupri (compresi quelli consumati in famiglia) non siano un problema: sono una tragedia per entrambi e solo nelle manifestazioni più superficiali possono apparire “vantaggiose” per l’uomo. Non solo: il problema della violenza sulle donne può essere immediatamente tamponato con misure repressive, ma può essere adeguatamente superato solo con un’autentica liberazione sessuale delle donne e degli uomini.
Il problema non compreso dalle femministe è proprio costituito dalla miseria psicologica che accomuna uomini e donne e che sta anche alla base delle più ovvie disparità di tipo sociale ed economico. Tale miseria psicologica ha le sue radici nei normali abusi psicologici commessi a danno dei bambini, sia maschi, sia femmine (e con responsabilità spesso, imputabili più alle madri che ai padri). I disturbi della personalità e i disturbi della sessualità, infatti, colpiscono sia i maschi che le femmine. Non c’è alcun vantaggio a soffrire di vaginismo o di impotenza erettiva, ma non c’è nemmeno nessun vantaggio a soffrire di disturbi non classificati come tali che però tali sono: un desiderio sessuale debole o un desiderio dissociato. Per motivi niente affatto biologici, ma solo culturali, maschi e femmine vengono allevati in un clima sessuorepressivo che porta comunque molte femmine ad una inibizione della loro sessualità e molti maschi ad un'ostentazione della loro sessualità. Ciò significa che, non sempre ma spesso, nel loro sviluppo le donne manifestano un erotismo fiacco e gli uomini una sessualità dissociata (in pratica, “lei ne farebbe anche a meno” e “lui penetrerebbe qualsiasi cosa”). Solo in questo clima malsano si sviluppano i modelli della donna “casa e chiesa” e dell’uomo “galletto”. In entrambi i modelli è presente a monte una repressione sessuale ed emozionale significativa e tali modelli sfociano solo “a valle” in disturbi più evidenti. I più gravi sono costituiti dalla violenza sessuale (sulle donne), ma anche da quella che chiamo “contro-violenza sessuale” (sugli uomini). Da un punto di vista psicologico i due fenomeni sono perfettamente assimilabili anche se ha (e DEVE avere) un rilevo di tipo penale solo il primo. Sono assimilabili in quanto implicano dell’odio (spesso inconscio) e producono effetti distruttivi sulle donne o sugli uomini che si trovano nel ruolo di vittime.
Quella che chiamo contro-violenza sessuale è un fenomeno molto diffuso che consiste in pratica in una frode legalmente non rilevante ma umanamente devastante. Alla base c’è una “fame di maternità” nelle donne che le rende aggressive sessualmente quanto basta per sedurre un maschio, per raggiungere il matrimonio, la gravidanza e per fare l’esperienza della maternità. Da quel momento la donna inizia una manovra di allontanamento del marito che si spiega con un attaccamento morboso al figlio. Il figlio (o la figlia), in questi casi non ottiene un reale appagamento dei propri bisogni affettivi ma un accudimento appiccicoso, inappropriato, o anche scadente ma apertamente esibito. L’uomo viene “trascurato” proprio perché la compagna (in genere, “la moglie”) è molto “presa” dalla prole. Se i figli sono più di uno i rapporti sessuali da rari diventano rarissimi. L’uomo si trova violentato non nel corpo ma nel suo progetto di vita: aveva immaginato una vita con una compagna e si trova solo. Aveva immaginato una vita con dei figli, ma questi diventano i figli della sua compagna. Aveva immaginato una vita sessuale e questa è cessata: non completamente, ma quanto basta per farlo sentire non voluto, non accettato e non appagato. Non solo: è “incastrato” in una situazione famigliare impegnativa, per il mantenimento della quale deve lavorare tutto il giorno.
Se gli uomini non fossero normalmente corazzati e nevrotici soffrirebbero terribilmente per questa situazione e cercherebbero un’altra compagna. Si è sviluppata di recente una tendenza in tal senso, ma tradizionalmente gli uomini si sono “difesi psicologicamente” subendo questa situazione in vari modi: a) fingendo di accontentarsi e facendo sesso solo nei giorni “consentiti” (e ovviamente scindendo l’impulso sessuale dal sentimento di dolore o di rabbia nei confronti della compagna), b) tradendo la moglie e creando il classico triangolo senza manifestare sentimenti profondi né alla moglie né all’amante, c) pensando ad altro (ad esempio dedicandosi alla carriera).
In una logica “femminista al contrario” si dovrebbe affermare una (bizzarra) “autocoscienza maschile” per liberare i “poveri maschi” da questa “violenza esistenziale”. In realtà, loro sono responsabili di aver scelto una compagna inadeguata alla costruzione di un nucleo famigliare e comunque sono responsabili di aver dato una risposta vittimistica al problema (sparlare delle donne dal barbiere e “scoparsele tutte”, oppure lamentarsi delle donne dal barbiere e rassegnarsi). Questi uomini non hanno motivo di sentirsi maltrattati, perché se non lasciano la moglie in genere evitano tale scelta soprattutto perché provano un terrore irrazionale di perdere la “stabilità” che comunque cercano nella famiglia. Questi uomini hanno sbagliato molte cose, come le loro mogli, e le radici ultime dell’irrazionalità delle loro azioni e dei comportamenti delle stesse mogli si trovano nelle famiglie di provenienza di entrambi. Entrambi si sono adattati nell’infanzia ad una famiglia infelice, riducendo o distorcendo la loro vitalità e la loro sessualità per avere una parvenza d’affetto da parte di genitori inadeguati.
Quando in una famiglia povera dell’India la nascita di una bambina è considerata una sventura perché la famiglia dovrà mettere da parte il denaro per “la dote” e perché la bambina, una volta cresciuta, farà da serva alla suocera e non alla madre, si presenta un groviglio di idee sballate e consuetudini assurde che si traducono anche in comportamenti genitoriali ingiusti e violenti: le bambine ricevono meno apprezzamenti, meno attenzioni e meno cure fisiche dei maschi. Fatti come questi sono gravissimi perché determinano anche conseguenze disastrose. Soprattutto indicano un problema gravissimo di tipo umano e non di tipo “maschile”.
Sarebbe ora che finisse questa guerra fra poveri (fra femministe e maschi) e che iniziasse una guerra davvero articolata fra persone e società. Una società che è autoritaria e non semplicemente “patriarcale”, una società basata sul mito della famiglia e non sulla realtà delle persone, una società che toglie alle donne e agli uomini la loro dignità e che soprattutto toglie alle donne la possibilità di avere una buona compagnia maschile e agli uomini di avere una buona compagnia femminile. Una società in cui la sessualità non si sviluppa armoniosamente perché fin dai primi mesi la sfera affettiva viene compromessa da madri poco disponibili, da madri e padri emotivamente deboli, da madri e padri che si odiano anziché amarsi e che cercano nella famiglia una “stabilità” anziché un’intimità psicologica e sessuale; da madri e padri che non fanno i genitori.
A questo punto, il libro della Nussbaum, risulta molto importante, ma altrettanto pericoloso.
Il libro è importante perché abbiamo davvero bisogno di ripensare ai criteri con cui valutiamo una società: e il criterio delle capacità sembra, al momento, il migliore. Una società funziona bene non solo se tutti votano, ma se tutti hanno gli strumenti per decidere liberamente per chi votare. Una società funziona bene non solo se tutti lavorano e mangiano, ma anche se tutti hanno la possibilità di utilizzare il loro tempo libero in modi creativi. Una società funziona bene non solo se garantisce la libertà di pensiero, ma se rispetta la dignità di tutte le persone che la compongono e favorisce nelle persone la capacità di pensare.
Il libro è pericoloso perché il vizio concettuale del femminismo compromette la profondità delle analisi fatte e delle prospettive delineate. L’Autrice afferma “l’idea che ogni essere umano sia il formulatore del suo progetto di vita e che ognuno dovrebbe essere trattato come un fine e nessuno come mero strumento di fini altrui” (p. 336). Su questo dobbiamo essere d’accordo, sia quando l’Autrice considera situazioni sociali in generale, sia quando si sofferma sulle opportunità negate in vari paesi alle donne, sia quando approfondisce la condizione, particolarmente drammatica, della donna in India. Qui però si profilano opzioni interpretative e propositive che meritano di essere vagliate attentamente. Voglio quindi riportare un lungo brano che mi sembra chiarificatore.
“Come ha fatto notare Sen, una persona che non si sa valorizzare e che crede che gli altri abbiano mete più degne delle sue non sarà forte nel contrattare. Come ho sostenuto nel secondo capitolo, si tratta di un problema significativo per le donne all’interno della famiglia.
Come si può combattere efficacemente questo senso interiore di inadeguatezza? Sia i programmi statali si quelli non governativi dedicano solitamente molto tempo a illustrare alle donne l’importanza dei loro diritti, del loro status di cittadine con il diritto di pretendere servizi dal governo, oltre che dei loro programmi e progetti. (…) Ma ci sono altre più concrete strategie. L’istruzione ovviamente svolge un ruolo importante a questo punto, in due modi: come fonte di immagini di valore e di prospettive e anche come fonte di formazione che trasforma il possibile in realtà. (…) E infine incontrarsi con altre donne all’interno di gruppi è assai importante per conquistare un senso di sicurezza e di iniziativa efficace. (…) Il potere di contrattazione contro il maltrattamento domestico viene chiaramente rafforzato dalla presenza del gruppo, che può agire nei confronti di un uomo che si comporta male, ma viene anche rafforzato dal senso di potere e dignità che una donna deriva dal gruppo, rendendola intollerante nei confronti di iniquità che prima avrebbe tollerato (pp. 339-340).
Non è facile fare distinzioni e precisazioni, se si immaginano situazioni di degrado umano come quelle descritte dall’Autrice, ma una solidarietà profonda richiede dei ragionamenti rigorosi. Quei maltrattamenti tanto diffusi offendono le donne che li subiscono, ma offendono le donne in quanto persone e sono infatti comprensibili da parte di qualsiasi persona. Paradossalmente potrebbero essere minimizzate da donne molto tradizionaliste e produrre indignazione in uomini sensibili. Certe cose sono ingiuste e la giustizia può essere affermata o negata da chiunque. Le donne che subiscono dei maltrattamenti in famiglia hanno il problema di essere isolate e non di essere isolate da altre donne. Quelle donne hanno bisogno, finché i costumi non cambieranno, di solidarietà umana e non di solidarietà femminile. In uno di quei gruppi svolgerebbe un ruolo più costruttivo un uomo sensibile e colto o una donna tradizionalista?
L’idea dei gruppi di donne, come quella ormai “storica” dei gruppi di “autocoscienza” è un’idea che nasce da una mentalità oppositiva e da una fantasia di “reazione al potere maschile”. I gruppi “di donne” non sono mai serviti a molto, anche se sono stati capaci di far proliferare dei contro-pregiudizi.
Un gruppo di riferimento formato da uomini e donne che affermano il valore della persona, tutelerebbe benissimo le donne maltrattate e potrebbe anche fare qualcosa per gli uomini che le maltrattano dopo essere stati abbrutiti dalla stessa cultura tradizionale e violenta. E’ ovvio che “con certi uomini” non si ragiona (e non ci potrebbero ragionare nemmeno degli uomini assennati), ma anche con certe donne non si ragiona. Ciò che è in atto nelle situazioni di abbrutimento è un generale avvilimento della dignità delle persone e ciò che va perseguito è un elevamento del livello di consapevolezza di tutti. Nei limiti del possibile.
Nelle culture tradizionali compatte, le vittime sono attaccate al loro ruolo come i persecutori. Ma quando subentrano elementi di crisi o di contestazione può accadere che chi ha il ruolo della vittima sia più propenso a “destarsi dal torpore”. Se lo fa senza strumenti adeguati, passa dalla rassegnazione al risentimento senza recuperare alcuna consapevolezza dei sentimenti negativi che manifestava già in precedenza, inconsapevolmente; e senza recuperare alcuna coscienza della debolezza profonda e della lacerazione delle persone che stanno nel ruolo del persecutore. Da una situazione personale di abbrutimento si può davvero uscire solo con la convinzione dell’inaccettabilità di tutta la situazione per ogni suo partecipante. Se invece si parte con il “collettivo delle donne ex-vittime” si salta la possibilità sia di una profonda presa di coscienza nelle donne, sia di una presa di coscienza negli uomini.
Nelle conclusioni, l’Autrice sottolinea l’importanza dell’approccio delle capacità e ne riassume i vari meriti. E’ però davvero un peccato che le ultime quattro righe di tali conclusioni e quindi del libro siano proprio queste: “In questo modo, mi sembra, l’approccio può legittimamente rivendicare il diritto di portare un contributo specifico alla ricerca concreta della giustizia di genere” (p. 363). E’ davvero un peccato che il concetto di “giustizia di genere” costituisca lo sbocco di una ricerca tanto accurata. Sono così abituato a sentire banalità femministe che accuso ancora il colpo quando una donna intelligente e impegnata come la Nussbaum si prende la libertà di gettare un contributo tanto prezioso sull’altare della religione femminista.
Da quando le donne hanno preso coscienza del fatto che per molti aspetti non avevano le stesse opportunità degli uomini, hanno messo in discussione molte cose ma non le “opportunità” degli uomini. Non hanno mai davvero capito che tali “opportunità” sono una schiavitù come quella da loro subita, anche se per certi aspetti materiali possono tradursi in privilegi materiali. Non hanno mai davvero capito che le donne vivono (come gli uomini) pessimi rapporti di coppia in un mondo regolato da una grave follia collettiva. Era più umiliato il gladiatore che periva in un combattimento o quello che vinceva e veniva applaudito? Io penso che fossero umiliati entrambi perché avevano cose più interessanti da fare che stare in un’arena a scannarsi per il divertimento dei loro padroni. Le donne tendono a vedere la spada che le trafigge e non vedono la privazione dell’abbraccio che avvilisce entrambi i “contendenti”. E continuano a collocarsi in modi oppositivi anziché libertari in un’arena sociale o solo mentale, senza capire che l’unica lotta vincente è il rifiuto di una contrapposizione distruttiva e irrazionale fra donne e uomini che fa male a tutti.

Gianfranco

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