Premessa generale (relativa a tutti i post)

Questo blog esiste grazie ai contributi di vari autori. Il gruppo iniziale (che contiamo di allargare) non è omogeneo per molti aspetti (e non potrà né dovrà mai esserlo), ma condivide l’idea che il tempo della vita meriti di essere vissuto con consapevolezza e passione, anche se la cultura di massa, i rituali sociali .. (continua a leggere la premessa generale)

domenica 19 settembre 2010

Graham Hancock e l’invasione ariana

L’invasione di cui voglio parlare non è quella della “razza ariana” propugnata dal nazismo, razza inesistente ma in nome della quale diverse invasioni sono state effettivamente compiute con annesse atrocità. Il riferimento invece è al popolo degli Arii attorno al bacino dell’Indo verso il 1500 a.C. Ci interessano perché rappresentano una vicenda di grande imbarazzo storico, scientifico, e più in generale culturale, dovuto ad una combinazione di irrazionalità, presunzione e convenienza.

Non si tratta di una nota di erudizione storica, ma di un invito sia alla lettura di un libro godibile (Graham Hancock, “Impronte degli dei”, ed. TEA, 2005), sia alla lettura della coscienza umana che perfino negli uomini di scienza lascia spazio alle loro chiusure e insicurezze.

Si tratta quindi di una questione un po’ più ampia: di come il pregiudizio di uno solo, in realtà, riguardi tutti. Esattamente come avviene nell’educazione dei bambini: genitori spesso in disequilibrio trasmettono ai figli le proprie carenze (cfr. Cuccioli umani), i quali poi da adulti saranno genitori dello stesso tipo. Si fa questo paragone, non per avvallare una visione paternalistica della scienza in cui gli scienziati-genitori hanno sotto tutela i poveri utenti-bambini (anche se spesso avviene veramente in questo modo), ma proprio per evidenziare come anche gli uomini di scienza, nella catena di trasmissione del sapere di una società introducono elementi di sofferenza e frustrazione dovuti ai loro limiti, ma soprattutto alla scarsa consapevolezza di questi. Innescano infatti, o mantengono, un circolo vizioso nell’informazione e formazione della società, che a sua volta produrrà scienziati con gli stessi limiti.

La modalità di interferenza è la medesima e ha la radice sempre nell’irrazionalità, ma questa volta con un fattore moltiplicativo di molto superiore: uno scienziato-genitore non ha solo uno o due figli influenzabili ma ha letteralmente milioni di individui a lui sottoposti.

Rifiutare di intraprendere una certa ricerca X sul cancro utilizzando un certo fattore Y, considerato pregiudizialmente “da ciarlatani”, non solo crea le premesse per creare alcuni allievi scienziati con i medesimi pregiudizi, ma può creare effettivamente milioni di malati in più.

E un pregiudizio medico non è più grave di un pregiudizio storico, come il cortocircuito “ariano” ci mostrerà.

Il collegamento tra le due “razze” e le due “invasioni” di cui si parlava in apertura infatti ci sta tutto: sarà più chiaro in seguito ma basti pensare che la svastica nazista altro non è che la croce uncinata induista, ruotata (http://it.wikipedia.org/wiki/Svastica). In effetti diverse cose sono state scritte sulle pratiche e sulle conoscenze occulte del nazismo attinte dalle tradizioni mistiche orientali: tema curioso e intrigante, ma sicuramente del filone “dietrologico” e “complottista”, che non seguiamo (http://it.wikipedia.org/wiki/Misticismo_nazista).

Seguiamo invece la pista del perché l’invasione ariana nell’India del nord si sia trovata in tutti i libri di storia anche se non è mai avvenuta.

La seguiamo con Graham Hancock, un giornalista non-archeologo e non-storico, che si occupa di archeologia e di storia, e che non ha senz’altro bisogno di me per cercare di vendere qualche libro in più. Lo cito con simpatia perché spesso si mette contro tutti. Gli archeologi e gli storici, ovviamente, ma per il gusto di cercare la verità.

Gli rinfacciano soprattutto di non essere un archeologo e quindi di non poter parlare di archeologia. O meglio, di non poter avanzare critiche o controproposte nel merito.

Non succede solo a lui e non solamente in quel campo, e questo conferma come il “principio di autorità” che la scienza delle origini voleva combattere in favore della razionalità e della libertà (era la spinta “illuminista” contro “il sapere infallibile” che proveniva dalle sacre scritture di una chiesa) non sia per niente decaduto. Qualche miglioramento forse c’è stato (non tutti sono d’accordo, su questo), ma essenzialmente si è sostituita l’autorità con un’altra, a cui ci inchiniamo con riti tecnologici e i cui sacerdoti oggi sono i tecnici-scienziati accreditati.

Senza fare dell’antimodernismo alla “si stava meglio quando si stava peggio”, Hancock in tutti i suoi libri pone sempre un paio di questioni interessanti, molto concrete, che, trattate con semplicità e rigore, aprono a questioni di più ampia portata.

Contro l’interferenza che distorce, infatti, l’antidoto per il lettore, lo studioso, il semplice utilizzatore (anche non finale!!) è riconoscere i meccanismi, e porre la propria attenzione critica su fenomeni e fatti. Non si può essere esperti o sapere di tutto, ma l’esercizio della critica e dell’apertura in quei campi che più ci sono congeniali o semplicemente interessanti, ci permette di coltivarle, in modo che crescendo possano espandersi in altri campi e germinare in altre persone, alimentando questa volta un circolo virtuoso rigenerante per la società.

Per chi si è incuriosito, riporto alcuni brani tratti dal libro in questione.

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L'invasione ariana dell'India

L'attribuzione dei Veda agli 'invasori ariani', la data del 1200 a.C. per la codificazione dei Veda, e la teoria stessa dell'invasione ariana possono essere tutti ricondotti a un'idea che aveva già messo radici all'inizio del diciannovesimo secolo, quando appunto un buon numero di studiosi occidentali incominciò a rilevare che il sanscrito, la lingua classica in cui sono scritti i Veda, e i suoi parenti moderni nell'India settentrionale, quali hindi, bengali, punjabi, gujerati e sindhi, hanno affinità molto strette con lingue europee antiche e moderne quali latino, greco, inglese, norvegese e tedesco. Come ha potuto verificarsi questa diffusione così incredibilmente estesa di quella che è nota come la famiglia linguistica 'indoeuropea'? E questa la domanda che gli studiosi si posero.

Ben presto iniziò a prendere forma una dottrina piuttosto prevedibile. «Questa dottrina», spiega Gregory Possehl [professore di Antropologia all'Università della Pennsylvania], «aveva a che fare con la razza ariana, proposta come la popolazione che parlava le lingue della famiglia indoeuropea. La superiorità intellettuale e morale europea era una conclusione scontata per la maggior parte dei sapienti del diciannovesimo e primo ventesimo secolo. Il successo del colonialismo europeo, del cristianesimo e della rivoluzione industriale lo dimostravano. Tale condizione di innata superiorità veniva rintracciata nei greci classici per essere poi portata avanti da Roma. Con la scoperta della famiglia linguistica indoeuropea vi era la prova di una storia ancora più antica, appartenente a un passato preistorico che solo gli archeologi potevano portare alla luce. Gli arii, o indoeuropei, dovevano essere dotati di questa 'superiorità' dal momento che anch'essi avevano conquistato con successo vasti territori, dal golfo del Bengala alle estreme isole scandinave e al Regno Unito.»

E su questo sfondo ideologico di inevitabile superiorità europea, combinato con il travisamento dei riferimenti agli arii nel Rig [inni vedici], che la dottrina dell’'invasione ariana dell'India nasce e acquista un credito universale presso gli scienziati quale avvenimento accaduto in un preciso momento della storia come movimento di massa di popoli da una 'patria' europea all'India.

Anzi la versione più antica di questo scenario, rimasta ampiamente accettata fino al ventesimo secolo, si spingeva molto più avanti. Sosteneva che l'India - la quale in precedenza era stata abitata esclusivamente da tribù dravidiche e aborigene dalla pelle scura - venne invasa dal nord-ovest attraverso i passi dell'Afghanistan da una razza europea dalla pelle chiara e forse addirittura dagli occhi azzurri, a un certo punto nel corso del secondo millennio a.C. I pallidi invasori nomadi, montati a cavallo, dotati di armi di ferro e alla guida di veloci cocchi da guerra, chiamavano se stessi 'arii'. Una volta travolti e soggiogati rapidamente gli abitanti indigeni, la cui civiltà si trovava a un livello inferiore della loro, essi importarono la propria religione naturalistica - espressa nel Rig Veda - che poi fu imposta alle razze 'inferiori' conquistate dell'India.

Il secondo scenario comincia a delinearsi dopo la scoperta e gli scavi dei siti di Harappa e Mohenjodaro nella valle dell'Indo durante gli anni Venti e Trenta. Risultò subito chiaro che queste città sofisticate, frutto di una pianificazione centralizzata, erano assai più antiche rispetto al 1500 a.C., data presunta dell'invasione ariana dell'India, e che appartenevano invece a un'alta civiltà prima non identificata da situare in un'epoca antichissima, forse antica quanto quella sumerica o quella egiziana, si arguì - in altre parole risalente al 3000 a.C. o anche prima.

Al pari di altre cattive idee dure a morire, la teoria dell'invasione ariana sopravvisse, adattandosi, a quel che avrebbe dovuto rappresentare una testimonianza critica contraria. Nonostante la cronologia fosse sempre più allargata per combaciare con le nuove scoperte archeologiche, gli storici furono a lungo in grado di tenersi stretti al concetto di un'invasione da parte di orde 'ariane' nel secondo millennio a.C.

A cambiare fu lo sfondo. In precedenza, i pallidi ariani avevano travolto le tribù primitive di cacciatori-raccoglitori dalla pelle scura. Ora bisognava ammettere che avevano travolto una civiltà urbana sofisticata fiorente in India da almeno mille anni prima del loro arrivo e di gran lunga più avanzata culturalmente, anche se non all'altezza del loro superiore valore e della loro tecnologia militare. Prima gli arii erano stati rappresentati come portatori di civiltà a un'India barbarica e ottenebrata; ora erano i distruttori di una civiltà molto più antica della loro - una civiltà colta, per di più, e che con ogni evidenza prosperava da lunghissimo tempo.

Si accettava universalmente che questa razza più antica di abitanti urbani fosse formata da dravida - gruppo etno-linguistico rappresentato principalmente da parlanti tamil, una lingua ora interamente confinata all'India meridionale. Senza altra prova oltre all'opinione autorevole (e in questo caso sbagliata) dell'illustre archeologo britannico sir Mortimer Wheeler basata su una dozzina di scheletri rinvenuti a Mohenjodaro e recanti presunti segni di ferite, gli studiosi adottarono la teoria che gli ariani invasori avessero 'massacrato' gli abitanti dravidici delle città Indo-Sarasvati, che si fossero impossessati con la violenza dei loro territori ricacciando i sopravvissuti verso sud.

Quantunque la teoria del massacro sia stata in seguito screditata (gli scheletri appartenevano ad epoche diverse, non recavano traccia di ferite mortali e non erano l'esito di un singolo o particolare avvenimento), l'idea di una invasione violenta dell'India da parte di una popolazione non indiana che si definiva ariana è sopravvissuta per lo meno in alcune nicchie del mondo accademico ufficiale fino agli inizi degli anni Novanta - allorché persino i sostenitori più ardenti iniziavano a prendere le distanze da essa. Entro il 1999 i testi standard sull'argomento si erano aggiornati e Gregory Possehl poteva scrivere il necrologio definitivo dell'ipotesi dell'invasione ariana nel voluminoso tomo Indus Age: «In ultima analisi non vi è ragione per credere oggi che sia mai esistita una razza ariana che parlava lingue indoeuropee e possedeva una serie di tratti culturali ariani o indoeuropei coerenti o ben definiti».

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Hancock non gioca al “dietrologo” e al “complottista” che vede trame segrete di eminenze grigie negli sviluppi della storia e della scienza, ma esaminando i dati, le spiegazioni correnti e le contraddizioni, fa rilevare semplicemente il fatto che anche tra gli scienziati trovano posto i pregiudizi, le chiusure. Qualche volta magari anche la malafede (per salvare una carriera fin lì fondatasi su elementi che potrebbero rivelarsi errati) ma, non essendo appunto un dietrologo, concede la buonafede e si rammarica per la ristrettezza di vedute dell’uomo-scienziato.

In un brano successivo afferma:

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Vi possono essere pochi seri dubbi che l'evoluzione e la lunga soprav­vivenza della teoria dell'invasione ariana si sia consolidata grazie alla convinzione inveterata da parte degli studiosi europei che la presenza in India di una lingua 'superiore' quale il sanscrito - imparentato con le lingue europee - dovesse implicare uno spostamento di tale lingua in una remota preistoria dall'Europa all'India piuttosto che dall'India all'Europa.

Vere Gordon Childe, professore di Archeologia Preistorica all'Università di Edimburgo e poi Direttore dell'Istituto di Archeologia del­l'Università di Londra, fu uno degli esponenti più influenti di questo grossolano razzismo accademico. Nel 1926, mentre erano in corso gli scavi di Harappa e Mohenjodaro, Childe elogiava il «dono» che a suo parere i muscolosi «nordici» ariani avevano recato all'India:

«Il dono duraturo lasciato in eredità dagli arii alle popolazioni con­quistate non fu quello di una civiltà materiale o di un fisico supe­riore, ma una lingua più eccellente e la mentalità da essa generata... Al tempo stesso, il fatto che i primi ariani fossero di origine nordica non rivestì un'importanza limitata: le qualità fisiche di quella razza, grazie alla pura superiorità in termini di forza, consentirono di conquistare popoli anche più progrediti e di imporre conseguentemente la propria lingua in zone da cui il loro tipo fisico era quasi completamente scomparso. E questa la verità alla base dei panegirici dei fautori del germanesimo; la superiorità fisica dei nordici li rese idonei ad essere il veicolo di una lingua superiore».

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Questo, oltre a chiudere il cerchio del collegamento “ariano” di cui si parlava all’inizio, ci dovrebbe far pensare che i fossili e i reperti storici non sono solo oggetti curiosi per eruditi o da esporre in un museo, ma sono i tasselli di un quadro, in cui, come genere umano, ci specchiamo. Occorre avere cura che questa immagine sia la più fedele possibile: solo la consapevolezza ci può salvare da tragici errori.

Per ora mi fermo qui, perché devo andare a controllare come la raccontano sul sussidiario di mia nipote.

Buona lettura.

Marcello

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